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Una vita da Faclò.

Sono Maria, Fata Carmela, tra i fondatori dell’associazione “La Banda Faclò”.

Mi sono avvicinata alla clown terapia nel 2007, e ho imparato a conoscere con fatica a volte e con naturalezza altre,  il mio clown.

Un clown bizzarro,  ma troppo razionale,  generatore di idee, ma troppo empatico.

Un clown che ha trovato nello storytelling la sua più grande attitudine e che riesce, a colpo d’occhio, a comprendere chi cerca aiuto e dove c’è più bisogno.

Un clown che parla troppo, che deve concentrarsi per ascoltare e che sta imparando l’umiltà giorno dopo giorno.

Un clown generoso, che adora le persone gentili e che si sforza di esserlo in ogni momento.

Un clown che non si arrende e che si mette sempre in gioco.

Un clown proattivo e pianificatore, che cerca lo scontro e che adora fare pace.

Un clown che crede nell’associazione, nella solidarietà e che pensa che non bisogna mai arrendersi e che bisogna accogliere, sempre.

Un clown sui generis, che crede, però fermamente, nel potere della risata, dell’arte, del gioco, della fiaba.

Un clown che per non far torto a nessuno,  tantomeno ai Clown con la C maiuscola, ho deciso di chiamarsi FACLO’.

Maria, Fata Carmela

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L’esperienza di clowndottore all’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù.

Esco dall’ufficio al termine di una giornata particolarmente faticosa e sono abbastanza stanca, ma oggi è il mio turno per andare in reparto. Fatina Puzzetta fra un’ora e un quarto mi aspetta sulla scalinata d’ingresso del reparto Mita 1 dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.

Mi affretto dunque verso la mia auto “storica”, la fedelissima Clio, compagna di viaggi e di mille avventure. Salto su, infilo la prima, poi la seconda e via fino alla quarta, poi arriva la quinta e poi…giù, si torna alla terza e ci sia alterna tra la terza e la quarta…aaaah lo so sembra un rompicapo, ma non lo è. È solo la storia di una guidatrice romana, che attraversa la città, districandosi tra una coda e l’altra…e tra una buca e l’altra, ma che durante il tragitto si bea della vista di tante opere architettoniche meravigliose e si gode qualche buon pezzo musicale su radio Virgin; ritmato quanto basta per riacquistare un po’ di carica. Insomma, tra una coda e una canzone, tra una buca e una visione sono finalmente arrivata a destinazione. Mi “inerpico” con il mio macinino sul Colle del Gianicolo, fortunatamente trovo subito parcheggio. Ho ancora venti minuti, che userò per: andare alla colonnina esattrice delle tasse per fare il biglietto di sosta, tornare alla macchina, prendere la mia valigetta clown, fare un breve tratto, che include scendere delle ripide scalinate, scorciatoia che, senza aver inforcato gli occhiali non mi azzardo a percorrere (perché sì ho solo trent’anni, ma la vista non è più quella di un rapace).

Tutte queste attività sono scandite da un ritmo abbastanza rapido, come rapida è stata tutta la giornata, ma improvvisamente un senso di calma mi pervade non appena giungo alla tanto agognata scalinata del padiglione. Alle 19.00 in punto la salgo insieme a Puzzetta. Suoniamo il campanello del reparto Mita 1 e attendiamo che le infermiere ci aprano. Dopo aver detto di essere le Fatine di “La Banda Faclò”, entriamo, salutiamo le infermiere e chiediamo un foglio di riepilogo per sapere quali pazienti ci sono oggi nelle stanze e se ci sono alcune in cui dobbiamo aver maggior cura o che non dobbiamo proprio visitare. Le infermiere ci porgono il foglio, dandoci qualche specifica, noi ringraziamo e ci andiamo a cambiare. Il Mita 1, così come il Mita 2 sono i reparti più delicati nei quali noi volontari della Banda ci rechiamo. Sono tante le attenzioni che occorre avere nel prepararsi e vestirsi per entrare. Attento deve essere il comportamento assunto durante l’intervento nella stanza, che è singola ed è come un piccolo “nido”, pronta ad accogliere pazienti in preparazione al trapianto del midollo osseo o che sono in fase di recupero, dopo esserne già stati sottoposti.

L’ambiente per me stato incredibilmente coinvolgente, mi sono sentita da subito nel posto giusto. Quando poi si è lì, con la compagnia e il sostegno di un clown/fatina più esperto di te, ci si lascia andare e con pollice luminoso, occhietti, origami di carta e tanta fantasia si sfrutta ciò che c’è nella stanza per interagire. Prima di ogni interazione però occorre leggere attentamente la lista delle infermiere, bussare nelle stanze in cui si può entrare e chiedere alle mamme dei piccoli pazienti o a quelle degli adolescenti se hanno voglia di giocare. C’è chi dice di si, chi dice di no, il magico duo accetta con gioia e naturalezza tutto ciò che viene, perché ciò che importa è rispettare la volontà del paziente e della sua famiglia. Il turno con Puzzetta si rivela entusiasmante, forse anche per via di un particolare senso di unione e di sinergia tra di noi.

È il primo turno insieme eppure ci sembra di conoscerci da sempre. Sicuramente questa sensazione è accresciuta dal fatto che durante il turno, in ogni nuova stanza, indipendentemente dalla situazione che ci si trova di fronte, il cuore è pieno di gioia, perché fare del bene riempie di una sensazione amorevole. Quei visetti intelligenti, quegli sguardi intensi, quelle risate di gusto, quella sensibilità sono le più grandi lezioni che puoi portarti a casa. Lezioni che fanno riflettere, lezioni che fanno comprendere quanto la tua giornata lavorativa stancante non sia nulla in confronto a ciò che vivono quelle piccole e giovani anime e le loro famiglie quotidianamente. Si impara tanto anche e soprattutto dalla propria “spalla” ed io in questo sono stata molto fortunata, perché il turno con Puzzetta è uno dei primi in quel reparto, il mio imprinting è probabilmente ancora più positivo grazie al suo contributo. Sperimentando semplici magie, fiabe, lezioni di origami, mini gag, il flusso della serata fluisce come l’acqua. Si sono fatte le ore 21.30, senza neanche accorgercene.

Diamo la buonanotte ai piccoli pazienti, ci cambiamo, usiamo tutte le precauzioni dovute anche prima di uscire e una volta fuori dal reparto ci abbracciamo forte. Vado verso la macchina, sul cucuzzolo del colle e cammino con una carica pazzesca e una sensazione di gioia indescrivibile, gioia che spero di avere trasmesso anche solo attraverso uno sguardo e un sorriso a quelle belle anime.

Questo articolo è dedicato tutti i miei compagni di viaggio e a chi ne entrerà a far parte in futuro.

Con Affetto,

Giraffa.

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La Bellezza di un atto volontario

Un atto volontario è qualcosa che segue la volontà, qualcosa fatto spontaneamente, perché è suggerito dalla nostra natura interiore. Un atto d’amore che riempie il cuore, che fa brillare gli occhi, che ci sostiene, che ci aiuta e ci riempie la vita di colore. Beh, io credo che non ci sia nulla di più bello e spontaneo che Amare e farlo attraverso il sorriso è la massima espressione, che avvicina le persone.

Ridere era la cosa che più mi piaceva fin da piccola, parlavo poco, osservavo molto, quando vedevo qualcuno della mia famiglia che era giù di morale andavo lì vicino e semplicemente: sorridevo. Ero buffa e spontanea da piccola, anche un po’ sbadata. Da grande sono rimasta sempre buffa, spontanea e sbadata, forse mi sono giudicata anche molto per questo. Ho sempre desiderato poter fare qualcosa di utile per chi è meno fortunato di me, ma non sapevo bene cosa avrei potuto fare; finché, un giorno, una mia cara amica mi ha parlato di un’associazione di volontari clowndottori e cantastorie, che va in ospedale ed in casa famiglia a far sorridere i bambini con patologie gravi.

Così ho voluto incontrare chi il gruppo de La Banda Faclò l’ha creato anni fa. È stato amore a prima vista; mi sono sentita al posto giusto, ho fatto il corso per diventare volontaria, durato mesi perché davvero ben strutturato tra teoria, pratica e tanta osservazione iniziale. Il dono più grande che abbia potuto ricevere sono i sorrisi e gli occhioni dei bambini che ho incontrato, ricordi felici che porto nel cuore. Lo sguardo di Maria, gioioso e pieno di voglia di vivere, che rideva continuamente al solo spegnere ed accendersi dei mie pollici luminosi; l’euforia di Gennaro, il mago professionista e di Riccardo, il piccolissimo costruttore di trenini che da grande vuole fare il capotreno, la dolcezza di Emiliano…e di tutti gli altri che abbiamo incontrato.

Mi piace prendermi poco sul serio, mi piace ridere di me stessa, “spogliarmi” dei giudizi, essere sbadata, buffa. Ho imparato a farlo di più e con più leggerezza da quando ho conosciuto questo bellissimo gruppo e mi piace farlo davanti ai bambini, forse perché mi sento un po’ come loro. Farlo con chi è malato, è più complesso, perché non sempre dall’altra parte si ha la voglia di mettersi in gioco e interagire..dipende dai giorni, dai momenti. Ma tu entri, ci provi e accetti tutto ciò che viene, sapendo che comunque avrai fatto qualcosa di buono. Gli interventi in ospedale sono sempre in gruppo, si è sempre in due ad entrare in reparto, questo dà tanta forza ed energia, insegnandoti a fidarti del compagno. Allora dai il meglio di te, ti lasci andare, riesci ad essere ancora più naturale ed esce fuori una creatività inaspettata, sollecitata dalla collaborazione con l’altro. Come avrete capito fare il volontario è un percorso personale, che ti cambia, in meglio, ma che soprattutto cambia le giornate di chi ha delle serie difficoltà, di chi ricorda quella risata come un evento felice; perché in fondo: “Un sorriso è una curva che raddrizza tutto.”  (Phyllis Diller) 

Questo articolo è dedicato a tutti i miei compagni di viaggio e a chi ne entrerà a far parte in futuro.

Con Affetto,

Giraffa.